La sola risposta alle infinite domande suscitate dalla variegata carrellata di soggetti espressi nelle opere di Gianluca Macari è racchiusa nel titolo stesso della mostra quale filo conduttore di un percorso del tutto personale.
Se consideriamo l’opera d’arte come un meta – oggetto privo di confini, vivo nella sua capacità di contenere in sé una sovrabbondanza di pensieri, allora diviene facile cogliere in ogni sua finestrella osservata da sguardi femminili o in ogni suo orizzonte perso tra mare e cielo l’armonia intesa come infinità di rapporti dinamici tra compiutezza e incompiutezza, tra determinazione e possibilità.
La creatività d’altra parte si nutre della tensione perenne che corre sul filo di questo rapporto, nel quale però l’incompiuto non si identifica nell’incapacità di giungere ad un punto di realizzazione ma piuttosto nella ricerca instancabile, a volte disperata, e nell’attingere infinito nel campo della finitezza.
Il finito, la compiutezza è in fin dei conti l’antitesi dell’arte nella misura in cui si connota come stasi creativa o, nel peggiore dei casi, come cieco autocompiacimento.
Così la perfezione dell’incompiutezza nasce tanto da contorni nitidi di scene intensamente evocative di illimitate possibilità quanto da pennellate fuori controllo o da spazi bianchi contenenti il tutto ma anche le sue parti.